#storiechecontano
#storiechecontano
La mia doveva essere solo una vacanza, ma si trasformò in un incubo.
Uno di quelli dal quale ti svegli con gli occhi sbarrati e hai paura di riaddormentarti perché un sogno terribile è pronto a ripiombarti addosso.
Come nei vostri serial di zombie viventi, solo che io mi ritrovai bloccato in una città di vivi morenti. Sembrava di essere in #TheWalkingDead, e non per fiction.
A Napoli mi aveva invitato il mio amico e collega Agostino Baratto. Da tempo ci scrivevamo e appena possibile mi ero imbarcato da Messina per raggiungerlo nella sua città. Era il 1656 e io mi ero preparato per un soggiorno di #sport e #salute, #terme ed #elioterapia.
La città era splendida così come si raccontava. Almeno vista dal mare mentre mi avvicinavo al porto.
Dovevo capirlo già al mio arrivo che c’era qualcosa di strano nell’aria. Agostino non si era fatto trovare senza mandarmi nessuno a spiegarmi il perché della sua assenza, così raggiunsi da solo l’albergo che aveva prenotato per me.
Dottor Carlo Morexano, vi stavamo aspettando, lasciate pure i vostri bagagli.
Era Palazzo Penne, conoscevo la fama di quel posto, ma figurarsi se un uomo di #scienza come me poteva dar peso a simili #LeggendeMetropolitane. Eppure.
Si diceva, di quell’edificio, che fosse il palazzo di Belzebù, costruito da lui in persona in appena una notte. Sembra che un tale Giovanni Penne l’avesse fatto erigere per amore di una donna e che per farlo avesse venduto la propria anima al maligno. Che poi, con un inganno, fosse riuscito a raggirarlo, tenendosi l’anima, il palazzo e la bella, ma guadagnandosi la vendetta eterna del diavolo.
Ho il sospetto che quella vendetta di cui parla la superstizione iniziò a compiersi appena misi piede sulla terraferma. Non contro un solo uomo, o un edificio, ma contro tutta la città.
Quella sera stessa, dopo aver cenato da solo, tornai al Palazzo. Del mio amico nemmeno l’ombra ma, prima che potessi entrare, una figura in mantello mi raggiunse di corsa. Era lui, disperato. Non mi diede nemmeno il tempo di salutarlo, inondandomi di parole e intimandomi di andarmene subito dalla città. “Fujetenne”, mi ripeteva. All’inizio pensavo scherzasse, poi pronunciò quella parola maledetta. Peste.
Mi disse che aveva visto la malattia con i suoi stessi occhi sulla pelle di un carcerato che aveva in cura e che, nei vicoli, dove la gente viveva ammassata l’una sull’altra, l’epidemia aveva già sterminato intere famiglie. Quella mattina stessa aveva avvertito il Vicerè, ma il Governo aveva deciso di mantenere la questione segreta per non allertare la cittadinanza. Per evitare che egli stesso ne parlasse avevano provato a rinchiuderlo, ma Agostino era riuscito a scappare, per poi nascondersi fino all’arrivo del buio. Io ero la prima persona con cui ne parlava. Sarei stato anche l’ultima.
Mentre ancora mi stava descrivendo i bubboni che aveva visto gonfiarsi e poi esplodere sul viso del suo paziente, due soldati spagnoli lo raggiunsero e lo trascinarono via, tappandogli la bocca. Io ero rimasto a guardare senza muovere un muscolo. Avrei potuto fare qualcosa? Avrei potuto cambiare il suo destino, il mio, quello dei napoletani? Non lo so, ma ancora me lo chiedo. Il giorno dopo, quando scoprì che nessun poteva lasciare la città, decisi di tener fede al giuramento della mia professione e fare la mia parte di #medico in quel girone infernale.
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