#storiechecontano

Carlo Morexano

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I parteII parte

Presto, nonostante i tentativi degli spagnoli di far passare inosservato il contagio massiccio, non ci fu più nulla da nascondere. I morti, troppi per contarli tutti, venivano lasciati nelle strade. I bambini rimasti soli vagavano senza sapere dove andare, rovistando nei roghi ancora caldi o mendicando un tozzo di pane.
Anche se quasi tutti preti erano spariti, la gente continuava a riunirsi in veglie e messe, convinta che quel flagello fosse una punizione del Signore.
Una apocalisse che voi definireste #Virale, dimenticandovi che prima di essere riferita a qualche video, questa parola era destinata a tremende malattie.

Per evitare il contagio giravo vestito con mantella e guanti cerati, indossando una maschera con becco nel quale avevo messo erbe aromatiche per non respirare il tanfo dei malati.
Quelli che ancora riuscivano a parlare, mi chiamavano “O’ Nasone”. Dopo Palazzo Penne le mie seconde case divennero l’#OspedaleDegliIncurabili e il lazzaretto messo su a Largo Mercatello, quella che oggi chiamano #PiazzaDante. Forse per via dell’inferno in terra che quel luogo ha ospitato.

Dopo quella routine, molto lontana dal #workout che avevo immaginato per la mia vacanza, mi ritrascinavo al mio alloggio contando sempre più porte sigillate, segno che gli uomini del Vicerè erano passati a rinchiudere in casa altre famiglie infette.
Ma c’era una cosa che mi inquietava ancora di più: la notte, da lontano, la #musica delicata di un liuto mi accompagnava passo dopo passo lungo la strada deserta. Un malato non avrebbe potuto resistere tanti giorni, così una sera decisi di seguire la melodia.

A passo di #jogging arrivai al #PonteDellaMaddalena, dove finalmente la vidi. A suonare era una ragazza, una delle vedette con il compito di vigilare perché nessuno lasciasse la città. In quello scenario di morte, lei faceva vibrare la vita. Mi avvicinai e le feci segno di continuare. Solo quando ebbe finito mi levai la maschera e mi presentai. Disse di chiamarsi Bella.
Il suo vero nome se l’era lasciato alle spalle, insieme alla sua storia, dolorosa quanto la vista che si scorgeva dal ponte.

Ogni sera, dopo aver medicato chi potevo e mentito a chi non aveva più speranze, mi allungavo per ascoltare quelle note e conoscerla un po’ meglio. Suonava per liberarsi del dolore che si portava dentro, rendendo la sua musica ancora più straordinaria. Aveva studiato al conservatorio e sognava di esibirsi in un teatro, davanti a un pubblico vero. Era la prima persona che incontravo in quello scenario ad avere ancora un sogno.
Dove io vedevo solo la fine di tutto, lei vedeva l’inizio di una nuova vita. Decisi che se ce l’avesse fatta lei, ce l’avrebbe fatta l’intera città.

Mi ricordai di un giovane compositore che mi doveva la vita, uno dei pochi scampati alla peste, e diedi a Bella un biglietto scritto di mio pugno in cui invitavo il ragazzo, in nome della vita che gli avevo restituito, a concedere un’audizione a chi gli avrebbe portato quel messaggio. Bella l’avrebbe solo dovuto cercare una volta finito quell’incubo. Se fosse mai finito. Ma ne dubitavo.

Poi avvenne il miracolo. Nel pieno di quell’estate torrida un diluvio miracoloso si rovesciò sulla città, lavando le strade, portandosi via i miasmi e purificando l’aria. Fu l’inizio della guarigione. Di quattrocentocinquantamila abitanti, ne erano morti oltre la metà, ma bastò una pioggia perché la città ricominciasse a vivere. I morti cominciarono a diminuire, i lazzaretti si svuotarono e la gente tornò nelle strade. Sul Ponte della Madallena non c’era più bisogno di fare la guardia. Peste mi colga se non dico il vero.