#storiechecontano

Gennaro Tibet

1753

I parteII parte

Tutto cambiò il giorno in cui il Principe chiese di procurargli uno stipo di pioppo abbastanza grande da potervi riporre un corpo.

 

Don Raimondo lavorava da mesi ad una pozione che, diceva, l’avrebbe reso immortale. Era la sua ossessione, per questo amava l’arte. L’#arte, nella sua bellezza immobile, è l’unica eternità concessa a un uomo.
Il suo tormento iniziava a costare più di quanto potesse permettersi, così visitavo il Banco del Santissimo Salvatore di #PiazzaSanDomenicoMaggiore, praticamente di fronte al Palazzo, per chiedere i prestiti con cui pagare i suoi esperimenti.
Era come passare al bancomat sotto casa per fare la spesa, solo che i soldi e il rispetto che si portavano dietro non erano rivolti a me, ma al Principe.
Mi recai al Banco anche per i 7 miseri ducati che pagai per quella cassa di legno. Un prezzo irrisorio, che non rendeva giustizia all’ossessione che quella cassa avrebbe significato.

 

Tra i pochissimi a essere ricevuti personalmente dal Principe in quel periodo, a parte me, ci fu Antonio Corradini, il Maestro incaricato di compiere una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente. Lo avevo visto entrare nel laboratorio e uscirne con un bozzetto nascosto sotto la veste.
Da quel momento mi recai nella bottega del Corradini ogni settimana per verificare l’avanzamento dell’opera, arrivando a stringere amicizia col suo allievo: Giuseppe Sanmartino, promettente #artistanapoletano.
Poi, un giorno, per il lavoro febbrile che aveva iniziato a consumarlo o per la finissima polvere di marmo che si respirava in quel luogo, il Corradini morì e tutto passò al Sanmartino.
Anche lui, come me, era un secondo destinato all’oblio che adesso, per grazia del destino, sarebbe potuto diventare primo. Un’affinità che ci legò ancora di più facendomi arrivare a garantire per lui.
Voi vi dimostrate favorevoli attraverso i like, io invece avevo solo la mia parola, così giurai al Principe che l’allievo avrebbe superato il maestro e il Cristo sarebbe stato indimenticabile.
Il Principe avrebbe fatto come gli consigliavo, a patto che io avessi accettato la mia parte dopo aver conosciuto il segreto di quella cassa di legno. Si trattava del suo esperimento definitivo. Quello con cui avrebbe vinto la morte. Questa volta non attraverso l’arte, ma tramite se stesso.

Il Principe mi coinvolse così nella sua follia. Mi fece giurare che non appena avesse bevuto quella pozione di sua invenzione, l’avrei prima fatto a pezzi e poi rinchiuso in quella maledetta cassa di pioppo. Ci avrebbe pensato l’alchimia a fare il resto.

“Don Gennaro, cos’è quella faccia? A tempo debito le parti si ricomporranno e io tornerò in vita”.
Io, queste mani mi sono testimoni, gli diedi la mia parola.
Quell’atrocità era diventata la mia unica occasione per uscire dalla sua ombra e spogliarmi delle vesti di secondo, ma divenne anche la mia tortura.
Da quel momento smisi di dormire, pensando a quali e quanti modi può avere un uomo di fare a pezzi un suo simile. Con una mannaia? Con una sega da legname? Oggi si troverebbe un #tutorial sull’argomento, che Dio vi perdoni, ma a suo tempo ero solo col mio martirio.
Visitavo macelli e segaossa in cerca di ispirazioni, ma potevo parlare di quell’assurdità solo col mio amico Sanmartino. Mentre il suo scalpello continuava a battere e levigare, mi aveva insegnato a utilizzare i suoi strumenti. Se funzionavano con un corpo di marmo, mi dicevo, l’avrebbero fatto anche su uno di carne.

Il giorno in cui il Principe fu invitato nella cappella per vedere l’opera ultimata, c’ero anch’io ad accompagnarlo. Il Principe si avvicinò al Cristo e allungò una mano su una delle pieghe del velo di marmo che lo ricopriva. Cercò di alzarlo, senza riuscirci. Poi pianse. Quello che aveva fatto il Sanmartino con quegli attrezzi, sarebbe stato ricordato per sempre.

Adesso toccava a me.