#storiechecontano
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Quella volta avevo preparato pasta e fagioli con le cozze e pane caldo profumato al rosmarino. Stavo mantecando gli #ingredienti nella pentola di coccio quando la fila davanti a me si aprì lasciando avanzare un sacerdote. Era Gio Batta del Tufo, vescovo di Acerra. Le mie ricette #gourmet avevano già attirato qualche nobile o prelato di passaggio, ma sinora nessuno del suo rango. Dopo aver finito il suo piatto, me lo tese per averne ancora.
Prima di andarsene mi chiese, quasi implorandomi, se avessi potuto cucinare per lui durante il suo soggiorno a Napoli, a Palazzo Ravaschieri, dove sarebbe rimasto ospite per alcuni giorni. Non me lo feci ripetere due volte.
Ad aspettarmi trovai una vera cucina solo per me, un aiuto cuoco e tutti gli ingredienti che sognavo di utilizzare. Sembrava la dispensa di #MasterChef, tutta per il mio #cookingshow.
Dicono che il cibo avvicini i cuori delle persone, e non c’è niente di più vero. Tra una portata e l’altra il Vescovo Del Tufo si interessò della mia vicenda, chiedendomi ogni particolare e promettendomi di intervenire personalmente per aiutarmi. Nel frattempo, se avessi voluto, avrebbe potuto affidarmi un locale attiguo alla Basilica di Santa Chiara dove avrei potuto cucinare per pellegrini e fedeli. Accettai con le lacrime per la speranza di rivedere mio marito.
Dall’America erano arrivati nuovi ingredienti, patate, peperoni, cacao, ma anche nuove carni come il tacchino. Nella mia locanda sperimentavo ricette e servivo i migliori piatti #fusion della città. Tra vermicelli, #paccheri e #ziti, la mia pasta trafilata al bronzo era conosciuta in tutto il Regno. Fu anche grazie a me che i napoletani, fino a quel momento chiamati “mangiafoglie” per l’abitudine di cibarsi di verdure, divennero famosi come “mangiamaccheroni”.
Il vescovo di Acerra fu di parola portandomi ogni volta nuove notizie. Grazie alla Chiesa della Redenzione dei Captivi, nata per riscattare i cristiani fatti schiavi dai musulmani, stabilì un contatto con mio marito, prigioniero in Turchia. Non mi sembrava vero. Iniziai ad affidargli delle lettere che, tramite la Santa Casa, sarebbero arrivate in mano sua. Gli scrivevo di quanto mi mancasse, di come la cucina mi avesse salvato dalla disperazione e dalla miseria e di quello che avrei potuto fargli assaggiare al suo ritorno con le mie nuove doti di #chef.
Provai a patteggiare un riscatto per la sua liberazione ma, anche se fossi stata ricca come prima, il prezzo da pagare sarebbe stato irraggiungibile. L’ultima speranza che mi rimase per trattare con i turchi fu quella di uno scambio equo: una testa per una testa, un amato per un altro amato. Avrei riavuto mio marito solo in cambio di un altro eminente schiavo turco.
Il Vescovo e la Chiesa della Redenzione mi aiutarono nell’impresa. Trovarono e acquistarono uno schiavo atteso nella sua Patria almeno quanto mio marito. Si chiamava Musa, figlio di una madre che non si era rassegnata a saperlo prigioniero in una terra lontana. Anche lui, come facevo io con mio marito, riceveva lettere che lo rassicuravano di una vicina liberazione.
Quando imbarcarono il ragazzo anche io andai al porto a vederlo partire, salutata dai pescatori che erano stati i miei primi clienti. In quell’attesa infinita furono loro a sfamarmi con il loro cibo povero ma saporito. Per giorni andò avanti così. Poi, una mattina, la vidi.
Una nave avanzava lenta verso il porto, sull’albero maestro sventolava la bandiera della chiesa della redenzione.
La guardavo pensando che saremmo ripartiti da quel molo, senza un soldo, ma con ostriche e vino a festeggiare il suo ritorno. Era cambiato tutto. Non era cambiato niente.
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