SAN GENNARO

OVVERO DELL’ATTESA

 

 

Alli deputati di Nido per la festa di San Gennaro ducati 197 e tarì 4.15 e per essi a Gaspare Postiglio Mastro Falegname a compimento di ducati 815 […] [e] alli seguenti suoi creditori con tre altre loro polize a parte per detto nostro banco, cioè ducati 5 a Nicola Punziano mastro cartapistaro, ducati quattro e tarì 4 a Giovanni di Filippo fioraro di carta e li restanti ducati 7 e grana 25 ad Anna de Parma venditrice di gesso di presa; e tutti detti ducati 815 sono cioè ducati 800 per intero prezzo convenuto pagarseli cioè ducati 550 per l’appaldo da lui preso dell’altare, machina, apparato dentro e fuori detto sedile ed impalizzata intorno il medesimo e gli altri ducati 250 per l’appaldo dell’ornamenti di cartapista della Festa del glorioso San Gennaro celebrata in detto Sedile a primo maggio 1751.

 

I

Avete sicuramente sperimentato, forse decine di volte nella vita, cosa si provi ad aspettare qualcosa o, più spesso, qualcuno. A rimanere immobili ad un crocicchio irregolare, seduti ai margini di un vicolo, a farsi scorrere addosso il tempo solo perché, nei vostri desideri, qualcuno, magari a momenti, dovrebbe arrivare. Attendere è camminare stando fermi. È una forma strana di amore e desiderio l’attesa e può essere declinata in tanti modi. Anzi, può mutare da un secondo all’altro. Mentre si aspetta. Può essere condita di dolce certezza – e quanto sono appaganti i secondi spesi in tale stato! – e può rapidamente mutarsi in una spina di fastidio, quando il prima diventa tardi e il momento giusto lascia il tempo al continuo rimandare. Non oggi. Forse domani. Sarà domani. Ancora un po’, rimarrò seduto qui ancora un po’. Ancora un braccio di corda al sole, prima di smettere. Di smettere di sperare che sia tra qualche momento e, quindi, tornarsene in pena a casa. Io credo che l’attesa sia tutto per chi è rimasto fermo, nella speranza di raggiungere qualcosa. Magari per chi non ha l’indole e la volontà per andarsi a prendere le cose. Poi, è chiaro, ci sono attese e attese. Alcune sono insospettabili. Altre attese sono così complesse e profonde che perfino chi le prova non riesce, magari mai, a spiegarne perfettamente la natura.

Per il lavoro che faccio, un lavoro che mi piace fortunatamente, sono abituato a vivere le attese degli altri. Potrei direi che lavoro con il legno, sarebbe forse riduttivo, ma per ora va bene così. Non è importante ora. Quando lavori con qualcosa di materiale, di fisico, e quando il tuo guadagno dipende sempre dalla consegna di qualcosa, allora le attese di chi ti circonda sono il ritmo delle tue giornate. A me ha sempre colpito, intimamente, questa fisicità dell’aspettare. È Napoli, ne sono sicuro, che ha impresso alla speranza e all’aspettare la caratteristica fisica del ricevere. Dalla visita di un parente all’incontro con un amico, tutto ha un avvento concreto, tangibile, e una ritualità materiale.

Ecco. Io costruisco teatri d’attese. Delle attese più alte che ci siano, per la precisione. Rifinisco e dono corpo ai grandi e fugaci altari per le festività del nostro santo protettore, San Gennaro. Due volte all’anno accolgo i fedeli in un abbraccio di pioppo e tendaggi, cullo la loro attesa, anche questa volta, per qualcosa di pratico, di visibile; il miracolo del sangue del nostro santo vescovo. Altrimenti da cosa dedurremo la sua volontà di proteggerci? La festività di maggio è quella che preferisco. Perché la primavera, in sé, ha tutto del trasporto e dei colori di una veglia luminosa. Il cielo alto e azzurro, i giochi del sole sulle pietre stanche intorno ai palazzi degli aristocratici sono, sospiri intorno all’evento. Diciamo che facilita il mio lavoro la primavera, che lo rende più naturale perché essa stessa è la perfetta rappresentazione di qualcosa di nuovo che arriva, che finalmente si presenta. Ma tutti qui vogliono il miracolo. Lo aspettano. Nell’oscillare color rubino del sangue, nel liquefarsi delle ansie che soffocano la città, tutti si accalcano al mio teatro effimero per ricevere la propria salvezza, la propria grazia tangibile. È che la devozione ha quest’aspetto dimostrativo, quest’aspetto del chiedere e del ricevere che la rende la più costante della speranze, la più improbabile e ricercata delle soluzioni ai problemi di ogni vita.

Ovviamente non li costruisco da solo queste cornici di venerazione. Esse si articolano per tutta la piazza, si appoggiano a statue, salgono sui palazzi, danno l’illusione di nuovi marmi e di nuovi giardini. In realtà è un anfiteatro di cartapesta, di fiori finti e di gesso. Ho delle persone che mi aiutano, per realizzare tutto questo. Due volte all’anno, in autunno e in primavera. Attendendo l’inverno e sperando nell’estate.

Perché, vedete, tutti attendono il sorriso del santo. Tutti attendendo il riflesso benevolo del sole sul suo busto d’argento. Qualcuno attende il rumore della processione, il profumo invadente delle candele. Ma per noi, per tutti noi, che siamo dietro a quell’impalcatura di gioia c’è qualcosa in più in cui confidare. Credo che la gente si affidi ai santi perché ai santi non puoi mettere fretta. Perché dei santi ci si fida e basta, poi le grazie – non vorrei bestemmiare, ma credo che c’entri anche la fortuna – prima o poi arrivano. Insomma, le cose migliorano, alle volte. Ecco. Noi che costruiamo il panorama della festa siamo custodi di attese più problematiche. Talvolta strazianti, ma bellissime nella loro forza. Nella loro non certissima possibilità di avverarsi. Non precisamente quel giorno. Non precisamente nel boato benevolo della folla stordita dalla vita.

Io attendo, ogni anno, nel viola fiorito dei glicini di maggio, che le mie decorazioni attirino gli occhi di qualcuno. Sono anni che costruisco, stupisco e aspetto il miracolo di primavera. Sedile dopo sedile, da Nido a Montagna, aspetto. Non il vibrare salvifico delle reliquie. Ma il brillare di un sorriso tra la folla. Anno dopo anno levigo la mia statua più bella, la mia Sant’Irene di schegge e fatica, da esporre al lato dell’altare. Aspetto che sia bella abbastanza, che sia, aggiustamento dopo aggiustamento, uguale alla mia attesa…

Che la porti da me, finalmente. Ma non aspetto da solo.

 

II

Ci sono tanti che attendono intorno a me. Piccoli collaboratori, persone che altrimenti, normalmente, non vedreste per strada. Sono tutti molto concentrati a guardare i colori, a sentire le risate, pochi colgono l’eccezionalità del silenzio che si cela dietro questi apparati. Eppure vi posso assicurare che la speranza di questi costruttori di piccole meraviglie – che poi come tutte le meraviglie sono volatili, sono passeggere – non ha nulla da invidiare alla grande attenzione data alla festa e al miracolo. Io li ho scelti con cura i miei collaboratori, li ho cercati in tutta la città e tra le botteghe più nascoste. Ma non li ho scelti per le loro capacità, non solo. Li ho scelti proprio per quel senso di tensione e di – perdonatemi se lo ripeto, come concetto – latente patimento che è il cuore di quello che è il nostro lavoro. Personalmente, della mia vita.

Nicola modella la cartapesta. Ci affonda dentro le mani e ripete sempre che una cosa è bella perché è bella, non importa se sia d’oro o se ci siano appesi dei coralli. Anche una cosa finta, ingannevole, può essere bella. Nicola crede che il bello debba essere necessariamente fragile, altrimenti è difficile da amare. Così dice. Per lui la primavera e l’autunno sono i giorni del lavoro, non della festa. Io non capirò mai perché Nicola attenda tanto febbrilmente quei pochi soldi che gli durano da maggio a dicembre, e da dicembre a maggio. Ogni anno cade preda di un febbre velenosa, un’acidità che lo costringe a litigare con tutti per la più piccola delle inezie. Eppure Nicola non è avaro e neppure è povero. Perché, e questo lo so di certo, quei soldi sono troppo pochi per viverci. Eppure non c’è niente di più importante per lui che quei pochi ducati. Perché a dicembre inizia a far troppo freddo per starsene sulla spiaggia e a maggio non vale più la pena di starsene ad oziare in città. Così risponde Nicola. Io credo che anche lui abbia bisogno di un dono concreto, di un segno tangibile che regali alla sua attesa una momentanea pace. È un artista il nostro Nicola, anche se tutto il suo compenso sono cinque ducati, da conservarsi fino al prossimo autunno. Forse si sente un grande artista Nicola o forse si piange quei ducati in vino, nelle immediate ore di vuoto che seguono gli applausi e il tripudio per il miracolo. Io l’ho scelto perché non pone freni alla sua vorace attesa, perché non ci lotta neppure e perché i suoi volti di cartapesta sono nervosi e vivi come la sua irragionevole smania di esserci, di essere ricompensato, di essere uno degli artefici della giornata.

Giovanni ama i colori. Gioca con le sue dita sottili con la carta, talvolta si taglia, più spesso ne disegna i contorni. Angoli rapidi, linee improvvise fatte con una lama di fortuna, tracciate con il carbone sul foglio disteso. Gli scarti dei libri, cadaveri di lettere d’amore, diventano petali. Giovanni ama i fiori e preferisce ricrearli con le sue dita esperte, piuttosto che coltivarli per poi strapparli alla vita. Lui aspetta una felicità che duri più di una manciata di momenti. Lui costruisce fiori che non appassiscono, li costruisce con la carta e con i colori, in modo che non muoiano sotto il sole, che non sfioriscano sotto le carezze dei fedeli e degli amanti appassionati. Ha un animo così fragile Giovanni che quando un lavoro non gli riesce esattamente come aveva desiderato, piange. Si commuove spesso e si mescola alla folla dei devoti che ondeggiano nel nostro teatro delle meraviglie. Cerca un abbraccio da uno sconosciuto, alza entrambe le braccia verso l’immagine della Vergine. Eppure so che lui aspetta un miracolo che lo salvi da questa fragilità, che lo strappi alla malinconia e all’insicurezza. Cerca un abbraccio che sia per lui soltanto e per i suoi bellissimi fiori di carta.

E sempre ci segue lei, Anna. Anna ci vende il gesso per le statue abbaglianti, per i gigli di sabbia e acqua. Voi dovreste vederla Anna, quando viene stravolta dai suoi dubbi. Quando ci chiede se il prezzo è troppo alto, o magari troppo basso. Anna vende il gesso e vorrebbe che fosse più solido. Vorrebbe che gli angeli che plasmiamo durassero di più. Conserva i pezzi di ciò che si frantuma e lo trascina con sé. Perché ha il cuore pieno di cocci e, me lo disse un giorno, prima della festa, che vorrebbe che qualcuno la custodisse, che qualcuno le donasse quel coraggio che ha il granito, che la liberasse dai suoi dubbi di polvere bianca. Abbraccia i suoi abiti, Anna. Ci segue e cerca qualcuno di cui fidarsi. Cerca qualcuno che la sappia aspettare, che la sappia capire. Non serve arrabbiarsi con Anna, non serve neppure parlarle. Perché vi darà sempre ragione, perché rimarrà sempre a guardarvi, immobile, cercando una risposta di pietra. Trovando un sorriso di gesso. Amabile Anna.

Attori di questo teatro di gioie. Sceneggiatura e inganno di questo paradiso in piazza. Ce ne restiamo seduti sullo scheletro del nostro lavoro, poi, a guardare i resti dell’entusiasmo, le cicatrici del miracolo.

 

III

Volta dopo volta, tra le mani che elemosinano una carezza al cielo, io mi affaccio a guardare. Mi nascondo, ai lati delle sorprese che ho costruito. Origlio le voci delle vedove che indicano i lineamenti scolpiti dei santi, della corona di figure intorno alle reliquie del protettore. Non sono indifferente alla festività – sarebbe impossibile, perfino per un cuore provato come il mio – e all’agitazione che l’accompagna. Prego anche. Prego che sia il momento adatto, che sia la giornata finalmente desiderata. Mentre la folla spinge e si agita, si prepara ad esordire in un urlo fragoroso, io dimentico la fatica del lavoro e la perfezione dell’insieme. Mi concentro sui particolari.

Mentre i nobili signori del Seggio si assiepano tra le prime file e si compiacciono della grande cornice di bellezze, stoffe, fiori e nastri che circonda l’intera piazza, io mi scelgo una posizione discreta. Mi raccolgo nelle mie preghiere, nei miei improvvisi sussulti di rabbia e passo la festa trascinando i minuti. Perché ho scolpito le fattezze della mia bellissima Sant’Irene, orgoglio dell’altare in cui si concretizza il segno benevolo del santo protettore, ad immagine di colei che, con tutta la forza, attendo. Mi fanno male gli occhi, non so se vi sia mai successo, nel tentativo di sforzare la vista su ogni volto, su ogni abito, su ogni acconciatura, per rivedere la mia opera viva. Per scorgere la musa del suo disegno e della sua realizzazione. Braccando forsennatamente il ricordo di lei ho marchiato il legno, ho tagliato via il superfluo intorno a quell’immagine mutabile e capricciosa. Eccolo, era comprensibile, il segreto della mia attesa. Il bivio tra la disperazione e la felicità. Finché salgono i canti e i petali di viole impazziscono di luce, trafitti dal sole di Maggio, allora il mio cuore palpita di speranza. Trema del ricordo dei suoi capelli color tramonto lento, si tende al suo profumo di frutta e terra schiarita dall’estate. Palpita della promessa che mi fece di esserci, di tornare da me, nell’abbraccio del miracolo a cui affidai il mio cuore innamorato. Di essere mia, di apparirmi, accendendo di gioia il sorriso. Eravamo giovani. Non troppo. Eravamo non ricordo esattamente dove, ma uniti.

Per questo ne ho imprigionato l’immagine negli alberi giovani, nelle decorazioni, nella statua che troneggia accanto all’altare centrale. Affinché veda, affinché sappia riconoscersi e sappia che sono anni che l’aspetto, che sono anni che ho portato dentro il ricordo delle sue parole. Sono stato sempre troppo attento alle parole. Avevi detto. Mi avevi detto… Ci eravamo promessi che… Vedete? Perdo la mia calma abituale, ora che si avvicina la festa. Ma è ancora felicità. È ancora felicità, prima che il busto d’argento del Divo Gennaro venga portato nel cuore del mio altare di illusioni, prima che il miracolo che interessa a tutti gli altri si compia, lasciandomi ancora qualche secondo senz’aria. Finché sta ancora succedendo…

Poi può diventare disperazione. Qualche ora passata a domandarsi se gli occhi non siano stati forti abbastanza, se la statua non abbia raggiunto il suo scopo. Se, semplicemente, io non abbia mancato l’appuntamento con la mia felicità, con la mia promessa sfiorita.

E questa volta?

Nicola riceverà abbastanza denaro per la sua cartapesta accigliata? Giovanni si commuoverà stringendo la gonna di seta e d’oro della Madonna, si asciugherà la tristezza sull’euforia di una corsa verso le gradinate del duomo? E Anna? Anna troverà un cuore di granito che possa ripararla dalle tempeste di gesso e ricordi dolorosi?

E questa volta? Questa volta ci sarà, verrà? Sarà il pomeriggio della mia felicità? Sarà il pomeriggio del miracolo? San Gennaro, in questa tua gabbia d’argento…San Gennaro, in questo tuo sfondo di candelieri e rose. Sciogli l’attesa per me, sciogli questo dilemma di tempo e di risate rinviate ai prossimi mesi. Lasciamela vedere, lascia che io la riconosca. Lascia che lei venga da me. Liberami da queste gioie di legno, regalami un cuore di carne e sangue.