ISABELLA CROYS, IL TEMPO E I COLORI

 

I colori ti restano sotto le unghie. Quando li stendi e li impasti sul legno o quando, per distrazione, ti capita di toccare il pennello. Polveri soffici tra indice e pollice, da lanciare in aria per ridere insieme quando mio padre non poteva vedere. Eravamo una famiglia numerosa, noi Croys. Ci accalcavamo sulla paglia e intorno all’unico tavolo della nostra casa. Qualcuno parlava a voce troppo alta e qualcuno piangeva, di continuo. Il silenzio lo scoprì con l’avanzare degli anni, con l’avanzare degli inverni contro le nostre deboli finestre. Prima il silenzio non esisteva, non era ammesso nella nostra piccola comunità. Non ero nata in quella piccola casa, questo lo sapevo. Venivo da un posto dove il verde delle colline si perde, senza rallentare a prendere fiato, verso il profilo sognante di foreste aguzze. Aguzze come le guglie di certe cattedrali, come le torri di certe città. Schegge di ricordi, bozze di un viaggio che feci con mio padre e mia madre, ancora troppo piccola per custodire davvero memorie.

Banco dello Spirito Santo, 5 novembre 1596. A Giovan Battista Rota ducati 4,50. E per lui a Luise Croys pittore per mez’onza di azzurro oltramarino che l’ha fatto havere.

La mia prima memoria è tinta d’azzurro. Quando arrivai a Napoli l’azzurro era ovunque. Nel cielo, sul mare, tra le dita di mio padre. Impastare, preparare, filtrare il colore della pietra sgretolata come se si trattasse di un gioco prezioso. Questo è il mio primo ricordo. Una città calda e grande, con le strade strette e assolate. Ed io seduta a guardare in alto, verso quel miracolo di pietra e polvere che diveniva colore, diveniva pittura. Mio padre lavorava dove mangiavamo, dove mia madre partoriva i miei fratelli, dove dormivamo. Il lavoro era tutto. Anche le strilla e i pugni sul muro erano lavoro, anche quando usciva senza
salutare per incontrare qualcuno, per vendere quei ritratti, quelle scene fatte di fretta in cucina. Anche quell’assenza era lavoro.

Banco dello Spirito Santo, 29 gennaio 1598. A Tomase Manat ducati 6. Et per lui a Luise Croys a complimento di ducati 24 per il prezzo de dudeci imperatori, quali li ha venduti.

Mi tendevo sulle punte dei piedi, verso la tela, verso il fianco di mio padre. Mentre dietro le spalle salivano le voci, il rumore delle stoviglie, il gattonare del piccolo Tommaso . Toccavo l’opera ruvida, incompleta.
C’era tanto, troppo da fare e finì con l’occuparmi io dei dettagli, una linea, carezza d’ombra sullo sfondo.
Fallo tu! Sono stanco, fallo tu. Un guizzo di rosso sulla spalla dell’imperatore Carlo V, un drappo da rifinire, improvviso e denso come una carezza sul velluto. Poi non fui più sola. Mani, decine di mani! Dianora, Claudia, Fenicia, Angelica, impronte su quei piccoli quadri, sui paesaggi sfuggenti, sui veli delle madonne, sulle lacrime di una Maddalena. Fratelli e sorelle stretti intorno ad un dipinto.

Banco dello Spirito Santo, 3 gennaio 1611. A Benedetto Vaez ducati 26,30. E per lui a Luise Croys in conto delle pitture.

Mio padre vendeva a tutti. Piacevano a tutti i suoi quadri semplici, con le figure piccole e il giallo immobile delle aureole. Li vendeva a mercanti portoghesi, a spagnoli, a nobili di passaggio. Poi altri pittori iniziarono a frequentare la nostra casa. Pittori napoletani e pittori che, come noi, venivano da qualche altra parte oltre le montagne e oltre l’orizzonte del golfo. Uno di questi pittori avrebbe dovuto sposare mia sorella Claudia. Avrebbe dovuto. Perché mio padre ci lavorava. Perché era un buon modo per smettere di essere stranieri. Fiamminghi. Ma non accadde. Non accadde e ci furono lacrime e disonore per tutte quelle piccole mani sporche di colore. Un giorno mi dissero che in casa sarebbe arrivato un altro come noi. Un pittore di Metz. Aggiunsero che era tempo e che, quindi, sarebbe diventato mio marito: Francois de Nomé.

C’erano le sue mani ora sui quadri di mio padre. Mani nervose e allungate che spingevano lontano le prospettive di ogni opera. I suoi occhi erano di un nero intenso e torbido e sotto quello sguardo affogavano pensieri, affogavano immagini che nulla avevano a che vedere con i tranquilli dipinti della nostra casa. Era un uomo taciturno, dal sorriso gentile e dal profilo triste. Si chiudeva in silenzi ostinati, prima di stendersi al mio fianco o prima di lasciare le sue figure contorte sulla tela. La sua mente era piena di rovine in frantumi e di strani santi, strane processioni disperse in mondi fatti di tenebra e di improvvisi bagliori.
Era molto diverso da mio padre, Francois.

Banco dello Spirito Santo, 28 maggio 1614. Al duca di Celenza ducati 40. E per lui a Luise Croys a compimento di ducati 50 per prezzo de quatri hauti da lui, atteso li altri ducati 10 per Banco del Monte della Pietà si pagano a Francisco di Nomé suo genero e resta totalmente soddisfatto.

Iniziò ad invadere le creazioni della nostra bottega con la sua inquietudine, con i suoi templi pagani pieni di crepe e di domande. Una natività diveniva una torcia tremolante, dispersa tra le rovine di una Gerusalemme in rovina, un martirio di una vergine un rincorrersi di spettri avvolti in fumi viola. Mio marito ho provato a capirlo per tanti anni. Ho provato a capire perché mio padre vi fosse così affezionato e ho amato, davvero, la sua delicatezza e le sue visioni angosciate. Mi illusi di essere io la causa di quel moto inquieto. Di quelle statue ribelli nelle nicchie d’avorio, di quelle sterminate distese di tempeste e di luna oltre il soggetto del quadro. Soggetto che diveniva sempre più piccolo, sempre più irrilevante rispetto
a quell’insieme di nubi e marmo infranto.

Banco dello Spirito Santo, 18 febbraio 1617. A Pietro Carrafa ducati 35. E per lui a Francisco di Nomé in conto di ducati 80 per lo prezzo de quattro quadri de pettura de palmi sette larghi del martirio de quattro Vergini: S. Lucia, S. Caterina, S. Agnese e S. Barbara alla sua maniera. Quali se obbliga darli tutti eguali e guarniti di cornici indorate a sue spese.

I committenti lo respingevano spesso, iniziarono ad evitarlo e a disertare la nostra casa. Perché mio marito sommergeva la tele con le sue spiagge bluastre, con i suoi mari prosciugati, oceani di terra e di relitti inspiegabili. Non importa quanto precisa fosse la richiesta del pagatore, non importa quanto cospicuo fosse l’acconto, le sue creazioni ripetevano il medesimo tema. La tensione che frantumava la pietra, che accendeva le poche figure vive dei suoi quadri, parlava un solo linguaggio e rifletteva una sola bellezza.

Francois dipingeva solo per se stesso, solo di se stesso. Alla morte di mio padre quasi nessun vecchio cliente ci era rimasto affezionato.

Banco dello Spirito Santo, 25 maggio 1620. A Francesco di Nomé ducati 25 e per lui a Alfonso Gagliardi che ebbe a conto di ducati 65 per dieci quadri li doveva fare, stante che detto Alfonso non vuole d’esso più detti quadri.

Credo che avremmo sofferto la fame. Anzi, sono convinta che quelle visioni così grigie, quella testarda vocazione all’ombra e al gelo avrebbe trovato la sua più concreta realizzazione proprio qui, proprio dove un tempo nascevano i ritratti e i vezzi dei nobiluomini, dove un tempo i santi fiorivano di luce e drappelli di cavalieri, in lontananza, ci ricordavano le perdute vie della Lorena e della Fiandra. Era un giorno di marzo quando il fratello di Francois ci raggiunse a Napoli. Era un bel giorno di marzo e io mi sentivo inspiegabilmente felice, perché il vento agitava i panni e tutto sembrò improvvisamente chiaro. Con il fratello di Francois giunse a casa nostra Didier.

E Didier cantava e rideva. Si copriva il volto dietro un calice. Era sempre nell’angolo più luminoso delle nostre conversazioni. Era sempre sul punto di alzarsi dai nostri pasti, circondato dai miei nipoti, circondato dai miei figli. In bilico tra una parola ed uno sguardo. Lo vidi dipingere per caso. Lo vidi mentre agitava la testa e sorrideva alle sagome che si riempivano, lontanissime e luminose, di colore e di luci sullo sfondo di vertigini bianche. Perché i paesaggi di Didier erano chiari e forti come il mare a febbraio, perché preferiva il rassicurante abbraccio delle nuvole alle dense ombre dei sogni. Didier dipingeva e sorrideva.
Ed io presi a seguire le sue linee, a comprendere i suoi colori. Didier riprese a dipingere quadri di imperatori e ritratti di mercanti. Riprendemmo a vendere.

Banco del Popolo, 17 giugno 1619. Ad Horatio Blanch ducati 18. E per lui a Desiderio Bar francese dite a compimento di ducati 28 atteso l’altri ducati 10 l’hebbe sotto il dì 7 maggio per il medesimo nostro Banco et sono per final pagamento di dudeci quadri d’imperadori che l’ha fatto e consignato.

La città sbocciava di turchese, oltre le agili vele triangolari. C’era il respiro nelle vedute di Didier, la vita briosa che inorgogliva i flutti e che lasciava sobbalzare le navi. Peccato dipingesse così lentamente, peccato non aver imparato a immaginare castelli e cattedrali insieme a lui. Non fu solo alle nostre finanze che l’avvento di Didier diede sollievo. Sentii il mio cuore liberarsi dall’uragano in cui era rimasto intrappolato, emergere dalle coltri di cenere che coprivano i quadri di Francois. Mi abbandonai a quelle nuove tonalità di felicità. Mi abbandonai alla sua risata.

Banco di S. Giacomo e Vittoria, 9 giugno 1628. A Carlo Tappia marchese di Belmonte ducati 9. E per esso a Desiderio Barra pittore a compimento di ducati 20. E detti selli pagano in conto de dui quadri della città di Napoli de quali uno l’have consegnato et l’altro lo doverà consignare.

A Didier non importava di null’altro che della chiarezza, della limpidezza, precisamente, che le sue vedute avrebbero trasmesso. Impazzivano d’argento i suoi panorami marini e non c’era città, strada, piazza o portico che riuscisse a sfuggire ai suoi strani sguardi. Lontanissimi, vertiginosi e obliqui ad indagare gli estremi sforzi dello sguardo. Quelle vertigini furono per me carezze e rovi. Delicato Francois, fragile Francois. Immobile Francois.

Banco della Pietà 16 maggio 1656. A don Camillo Sanfelcie ducati 10 e per lui a Desiderio Barra, in conto di ducati 80, per il prezzo di due quadri uno della città di Napoli con il mare e le colline e l’altro della città di Venezia similmente col mare et galere; et l’uno e l’altro numerosi di figure di tutta perfettione, li quali ce l’haverà da consignare, cioè uno di essi alla fine di luglio prossimo e l’altro all’ultimo di ottobre del presente anno.

Ben prima che la malattia lo stremasse, mio marito prese a firmare ogni opera della nostra bottega come “Monsù Desiderio”. Così i bui disagi di Nomè e le fiere città di Barra si confusero sotto un unico appellativo. Opere opposte e contrarie venivano assimilate a quel nome generico, a quella confusa imitazione di famiglia e bottega che eravamo diventati. Sognai di evadere con lui, di fuggire nel suo sorriso e di nascondermi nella curva della sua allegria. Mio marito si spense ben prima della peste. La sua febbre, la febbre che aveva sempre avuto e che lo aveva sempre spinto ad avventurarsi lungo i sentieri dei suoi tormenti lo aveva, alla fine, consumato. Confesso che dopo, soprattutto dopo, trovai incantevoli i suoi dipinti.