DUCA DI GUISA
GRANDE AVVENTURA

 

30 dicembre 1647

A Gennaro Annese di questo fedelissimo Popolo a disposizione del signor duca di Guisa ducati 791,17 et per esso al capitan Agostino de Lieto per altri tanti.

 

14 gennaio 1648

Al fedelissimo popolo della Serenissima Repubblica di Napoli. Et per esso con firma di Francesco de Porto giodice del patrimonio di detta Serenissima Repubblica a dispositione di Sua Altezza Serenissima ducati 116,1 et per esso al signor capitan della Guardia Agostino de Lieto, et per esso a Nicolo Ravaschi in virtù di quello se li deve per tante armi che ha consigniato alli soldati che servano nelle leve di Sua Altezza Serenissima in servitio di questa Serenissima Repubblica.

 

 

Purtroppo io sono troppo intelligente. Per tutti voi. Non lo dico per immodestia o per sottolineare qualcosa che non va in voi altri, anzi. Se volessi fare l’altezzoso mi basterebbe citare qualche titolo; Duca di Guisa, Sua Altezza Serenissima della Real Repubblica di Napoli e via così. Ma non voglio fare quel tipo di discorso. Cercate di capirmi, almeno voi sforzatevi. È un problema per me. Avere questa necessità di vedere le cose troppo in profondità, troppo lucidamente. Non riuscire mai a gustarsi niente, dover sempre spendere un pensiero o una parola in più. E non lo faccio perché mi va, io non sono affatto felice di essere così.

Non è un bel vivere. Gli uomini non dovrebbero ricordare a se stessi di essere delle bestie. Dovrebbe essere un istinto naturale, discretamente presente. Non dovrebbero prendersi, di tanto in tanto, in disparte, davanti ad uno specchio e dirsi “Rilassati. Vivi e prenditi il meglio.”

Sapete, quando avevo quindici anni mi costrinsero a diventare arcivescovo di Reims, nel nord della Francia. Ho ricordi tremendi di quei panneggi rossi che mi ingolfavano il collo. Ero un bambino gracile e avevo le gambe troppo vicine all’altezza delle ginocchia. E troppo lunghe rispetto alle braccia. Leggevo tanto. Di notte mi addormentavo leggendo e dormendo continuavo a leggere. I personaggi delle epopee medievali con cui stordivo il mio tempo si agitavano nei sogni, scrivendo centinaia di finali diversi per ogni racconto.

Credevo addirittura in Dio allora. E lo pregavo, lo pregavo rabbiosamente per farmi uscire dalla condizione di porporato. Da secondogenito non avevo alternative alla vita da prete. Però credevo nella provvidenza e credevo in un’altra verità incontestabile della mia vita. Io, alla fine, vincevo. La spuntavo, sempre.

Nell’arco di un anno mio padre e mio fratello si ammalarono e morirono. Io divenni Enrico II di Lorena, unico Duca di Guisa. E, per l’esaudimento delle mie preghiere, naturalmente, smisi di credere in Dio. Perché vincere non è così bello. Non sempre fa felici vincere. Bisogna saper desiderare le cose giuste.

A proposito di desideri, mi trovavo a Roma per ottenere l’annullamento dell’ennesimo matrimonio che non mi soddisfaceva quando mi raggiunse la grande chiamata. Masaniello era appena morto e il popolo di Napoli mi chiedeva di divenire il suo paladino contro l’oppressore spagnolo. Sembrava rischioso. Ero tanto annoiato da quel soggiorno a Roma. Una vita passata a scamparle tutte a provarle tutte, senza aver, alla fine, concluso niente. Desiderai essere qualcun altro, qualcuno di migliore, in quel pomeriggio d’inverno a Roma e così accettai.

La marmaglia sporca e cenciosa che venne ad accogliermi a Piazza Mercato mi mise i brividi. Avvertivo la loro assordante incapacità di capire quello che volevo e, più di tutto, non mi destavano nessuna curiosità.  Dovevo distruggere subito l’idea che potessero davvero governarsi e scegliersi dei rappresentanti.

Io ero lì per un solo motivo. Diventare re. Un re vero, come quelli dei miei libri e dei miei sogni. Non l’avrei ammesso mai in quel momento, ma i miei pensieri erano meno lucidi del necessario. Ero eccitato e ansioso di arrivare finalmente da qualche parte, di poter guardare una cosa fatta da me e dire “Ecco, questa, da qualsiasi lato la guardi è perfetta. È fatta bene, l’ho fatta io.”

Così feci ogni tentativo pensabile. Per vincere gli spagnoli serviva denaro? Nessun problema, ordinai di saccheggiare i banchi pubblici. Il Banco dell’Annunziata ed il Banco dei Poveri, avrebbero ceduto seimila ducati alla mia causa. Senza batter ciglio. Mi circondai di teste non pensati, capaci di violenza e di obbedienza e me ne infischiai di quei ciarlatori che mi rimproverano e mi seguivano con il loro codazzo di consigli e raccomandazioni sul destino della città.

Fu logorante far finta di rispettarli. Una farsa pietosa a cui, con il passare dei giorni, credemmo tutti sempre meno. Fui obbligato a confrontarmi con poeti, farmacisti e perfino armaioli. Mi annoiai e a febbraio li feci decapitare quasi tutti nel cortile di Castel Capuano. Prima che loro potessero far uccidere me, chiaro. Non ero stato capito, ancora una volta. Scampai alla fine della Repubblica e nessuno mi torse un capello, ovviamente. Finì con il fare il Gran Ciambellano del Re di Francia. Vedete? Riesco sempre a restare in piedi, a superare le trappole di questo groviglio insensato che è la vita. Non ce l’ho fatta a diventare Re ed è stato un peccato fidatevi. Sarebbe stata un’avventura bellissima, una storia indimenticabile per Napoli e per me, soprattutto per me.